
Il vino traina i consumi di bevande alcoliche in Gran Bretagna, secondo l’ente di ricerca statale YouGov che lo posiziona in testa alle classiche, favorito rispetto alla tradizionale birra. E nonostante il classico tè delle cinque potrebbe essere presto sostituito da un buon calice da aperitivo pre-dinner, la pressione della Brexit inizia a far sentire il suo peso sui principali mercati europei.
Il calo di oltre 714 milioni di euro delle importazioni registrato da Federvini nel 2020 (-6%) non è, infatti, solo imputabile alla situazione pandemica, e non riguarda solo il Bel Paese. L’effetto Brexit, com’è già stato definito dagli esperti, ha fatto retrocedere le spedizioni anche di altri importanti player comunitari, a cominciare da Francia e Spagna, nonostante le rassicurazioni da parte del governo inglese. E mentre la filiera del vino UE guarda con apprensione al futuro, iniziano ad arrivare le prime modifiche normative ai trattati che regolamentano il libero scambio tra il Regno Unito e la Comunità Europea, che da gennaio dovrebbero entrare nel vivo.
Cosa cambia da gennaio per vendere vino in Gran Bretagna
Dal 1 gennaio 2022 sarà, per ora verosimilmente, di nuovo necessario presentare il modulo VI-1 per l’introduzione di bevande alcoliche nei tre Paesi della Gran Bretagna (Inghilterra, Scozia e Galles). Una modifica apparentemente semplice al protocollo export, che potrebbe però costare alle cantine europee fino a 70 milioni di sterline l’anno (calcolati sugli attuali numeri di settore).
Non solo. La reintroduzione del modulo, al di là dei costi, comporterebbe anche il disagio di lungaggini e complicazioni burocratiche per gli esportatori. Non a caso, a seguito dell’annuncio, lo stesso governo Jhonson ha iniziato a lavorare sul caso proponendo, per bocca del Lord Holmes di Richmond, l’introduzione di un’alternativa elettronica, anziché cartacea, per far fronte alle future difficoltà degli importatori britannici.
Lo stesso Lord ha infatti dichiarato come
“Il mio emendamento non cerca solo di evidenziare il potenziale danno che l’introduzione dei moduli VI-1 causerebbe all’industria vinicola del Regno Unito, ma aiuta anche a mostrare la grande opportunità che abbiamo per rivoluzionare il modo in cui l’industria vinicola del Regno Unito opera potenziando la nostra attività tecnologica e ponendo il Regno Unito in prima linea nell’innovazione nel trasporto di merci”.
Perché la Brexit spaventa le cantine italiane
Attualmente, il Regno Unito è il secondo Paese per importazioni di vino al mondo, in termini di volumi. Quasi il 99% del vino consumato nel Paese viene importato, a fronte di una sempre maggiore domanda di questa bevanda da parte del pubblico ma, allo stesso tempo, di una inesistente vocazione o predisposizione alla produzione enologica.
E non sono poche aziende e denominazioni italiane che in questi anni hanno saputo guadagnare posizioni di prestigio nell’isola, facendo del proprio brand piccoli e grandi esempi di successo. È il caso, tra gli altri, del Montepulciano d’Abruzzo, cresciuto del 50% per valore e volumi di importazione in UK del 50% in tre anni, e oggi fortemente legato al canale HoReCa.
O, ancora, quello di Prosecco e Amarone, che contribuiscono alla costruzione di un giro d’affari, quella del comparto agroalimentare made in Italy, che nel Regno Unito vale circa 3 miliardi di euro l’anno.
La riduzione di attuali e futuri ostacoli commerciali, quindi, sarebbe preziosa per scongiurare la possibilità di una crisi senza precedenti, nonché nuovi e più diffusi fenomeni di contraffazione, già ampiamente presenti nel Paese. Senza contare che il vino che attualmente finisce sugli scaffali del Regno subisce già un incremento di prezzo del 61%, a causa di costi di spedizione e provvigioni degli importatori.
Aumentare ancora significherebbe chiedere troppo al mercato.
Export di vini in UK: una buona notizia c’è
Ed è quella che l’uscita dall’Europa del Regno Unito renderebbe quest’ultimo a tutti gli effetti un Paese Terzo, le cui attività di export di vini ed altri prodotti agroalimentari sarebbero finanziabili da misure come l’Ocm.
In quest’ottica, la dimensione della crisi viene parzialmente “attutita” dalla presenza dei fondi comunitari, che consentirebbero alle cantine di beneficiare di aiuti economici per l’apertura di nuovi mercati in un Paese culturalmente e geograficamente vicino al nostro. Un po’ come già succede con l’export di vino in Svizzera che, seppur rientrando nei limiti territoriali UE, non ne è politicamente compresa.
La seconda buona notizia
Dall’inizio dell’emergenza sanitaria sono cresciute esponenzialmente le possibilità per aziende interessate alla ricerca e alla vendita di vini online ad importatori internazionali. La mancanza di fiere ed eventi di settore ha ufficialmente consacrato i canali digitali, con un ingente risparmio di risorse economiche, specie per le piccole cantine, rispetto alle tradizionali fiere in presenza.
Tra queste, la necessità di inviare campionature per le degustazioni fisiche, il costo di viaggi e pernotti, mediazioni culturali, allestimenti di stand e partecipazione agli eventi. Il tutto, in modo più pratico, gestendo lo scouting e l’incontro con gli importatori direttamente dall’ufficio e concentrando le forze dove necessario.
Noi di Wine Business Hub lo abbiamo fatto, lanciando alle cantine italiane l’opportunità di una fiera digitale sempre aperta, dove trovare importatori internazionali alla ricerca di vini italiani.
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